Caduto Nel Silenzio Del Cosmo Perduto

Scorrono lentamente questi maledetti giorni,
io che ho viaggiato nei secoli come da una stanza a un’altra
io che ho avuto pieno controllo sul tempo e i suoi rami
potevo tagliarne il fusto, spezzarne le radici
ora non sono che una piccola parte
di un cumulo di polvere
fra miliardi di stelle.

Suona solo un violino:
fra questi colori stagliati nel cielo
è lui che allietava i miei tormenti
nutrendo le mie ambizioni;

tra le mute lacrime
e seduto fra questa erba selvaggia
mi chiedo per chi suonerai ancora
se il tuo nome è ancora una pietra miliare
o caduto nel silenzio del cosmo perduto.

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U Cusentinu

U cusentinu è nu personaggio. All’aeroporto i Lamezia si lamenta ca ppi fare deci metri ti portanu curu pulman, quannu ppi fari dua passi ppe piazza Kennedy piglia i chiavi da machina e va biva u cafè aru Borromeo. Dopu tri ure parcheggia davanti i Due Fiumi e va joca na schedina. Milan: 1 fisso; Juve: X fisso; Inter: 2 fisso. Si ricoglia ara casa e trova a mugliera ca latania: “Addi cazzo si statu? Possibile ca nun fa na minchia tutta a santa iurnata! Ma chini cazzu ma fa fà! Ma chini cazzu ma fa fà a m’avvelenare u sangue!”. E ru cusentinu rispunna: “Ma nun mi cacà a minchia! A preparato ppe cena? Minati ca avimu ospite u cognato i Morcavallo oggi, oppure si juta a mi fa i corna e ti si scurdata? Aglio, olio e peperoncino? Rispunna, puttà!”. I vicini sentanu urla, zumpi, fuachi di tutti i tipi e vidanu u cusentinu ca escia da casa jestimannu a madonna. Trasa torna picchì se scurdatu i chiavi da machina; va piglia nu cafè, si fuma na sigaretta e va joca na scummissa ara Snai. Mentre passìa trova l’amici, si lamenta ca nun tena mai sordi e si lamenta i chiru curnutu i Monti e subito dopo i porta ara machina, nu BMW di chiri ca ppe ra madonna…

U cusentinu è nu personaggio. A duminica è du pallù e ru Cusenza e ra vita sua. U luni è nu cacamentu i cazzu, u marti na grattata i palle e via via fino a sabbato, quannu finalmente ammasuna d’a mamma ccu moglie, figli, cane, gatto, zii, nonni, bisnonni, trisavoli ppe ra ciambotta classica in famiglia. I vicini da mamma sentanu urla, zumpi, fischi, piatti ca si rumpanu, gente ca canta e ancunu ca jestima ppe ra machina rigata. A sira, u cusentinu si stinna supa u divanu, si guarda Amici e sogna.

U cusentinu sogna.

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愛, 死

Verrà.

E tenendoti per mano
ritroverai
ciò per cui
continuavi.

Il tempo
che inghiotte
ogni figlio per diletto
sarà sazio.

Verrà.

E tenendoti per mano
guarderai le stelle,
mai state
più calde e più belle.

Persino il freddo si riscalderà.

Verrà
e per una volta
saremo nudi e veri.

Per una volta
non piangeremo.

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A Me Non Resterà Altro Che Un Pugno Di Polvere Fra Le Mani

Anche se i nostri sguardi si incontreranno
fra qualche giorno o fra qualche secolo
e tu chiederai
ancora
di ogni mio interesse
ascoltando ogni parola
tirata a stento dalla gola

anche se dovessi salutarti prima di un lungo addio
e tu, statua protettrice di ogni viandante,
aspetterai in quel luogo
per ogni estate che ci separerà
a me non resterà altro che un pugno di polvere fra le mani.

Fra la nobiltà e l’inettitudine,
signore e coglione:
un fiore così bello
non sono in grado di non farlo appassire.

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02: Let It Snow, Let It Snow, Let It Snow

Era un inverno come tanti altri.
La neve sulle strade dava un assaggio dell’imminente Natale; i ragazzi giocavano con le palle di neve o a firmarsi con la propria urina mentre le ragazze davano più attenzioni ai loro coetanei, visto l’ingombrante sviluppo fisico in atto.

Era inverno, come tanti altri in passato.
Con la neve, i suoi pupazzi e le chiazze di sangue e i cadaveri dei clochard morti per il freddo e quella ricerca di calore, termico materno e carnale, che chi odiava la solitudine non poteva rifiutare.

Uscì di casa, lasciandosi dietro il corpo della moglie sospeso nel soggiorno. Il collo di lei, che tante volte lo aveva amato per quel suo profumo, ora era spezzato da una rassegnazione che solo un viaggio lunghissimo o un riposo meritato potevano alleviare.

Ma fra queste mura, ogni uomo è legato a qualcosa più che alla vita. Abbandonarla significa pagare un prezzo più alto di quanto ci si possa aspettare. Fra queste mura, la fuga è un mezzo per la libertà, ma la libertà è una donna che ha chiuso ogni rapporto e ogni stato di grazia nei nostri confronti.

La fuga è l’unico mezzo per la libertà; la corda, il biglietto di sola andata.

Prese il neonato dalla culla e lo portò con sé, sotto il suo cappotto, per le strade coperte dalla neve, con i suoi pupazzi e le chiazze di sangue lasciate da qualche negro pestato a morte da poliziotti ubriachi, per portarlo dal parroco del villaggio che abitava a pochi isolati.

– Non ce l’ha fatta. Meglio che io vada.

– Sei sicuro di quello che stai facendo?

– Ormai non ho più nulla che mi blocchi e questa creatura non ha più nessuno per cui ridere o piangere, arrabbiarsi o stupirsi. Puoi anche ucciderlo, se vuoi. Non merita ciò che dovrà sopportare.

– Questo non è più un mattatoio per i poveri figli di Dio, lo sai bene! E io non sono una balia, ma sempre meglio con me che con un pazzo omicida come padre…

– Si è impiccata, Jerome… come tutti gli altri.

– Oh buon Dio… Beh, se non fossi stato tu, l’alternativa era questa.

– Lo lascio a te. Dovesse chiedere di me o fare degli errori nella sua vita, non esitare: uccidilo. Non vale la pena consumarsi per inutili cose.

– Come l’affetto di un padre?

– Sei invecchiato, Jerome. Un tempo mi avresti dato ragione e ora questa povera bestia sarebbe già morta in qualche buca scavata nella neve.

– Un tempo mi sbarazzavo di pesi inutili per questo villaggio: la guerra ci ridusse tutti a bestie, nonché ridurci le scorte di cibo. Ma questi stupidi contadini non pensavano ad altro se non mangiare e fornicare. Poi venivano da me disperati per le troppe bocche che le loro mani dovevano accudire e sfamare. E io, che sono servo di Dio ma, ahimé!, anche uomo, sono stato bestia come tutti gli altri. Non c’era altra scelta.

– Quando crescerà, non dirgli il mio nome, né dove mi trovo.

– Lo scoprirà, è figlio di Sciacalli: sentite l’odore di uomini già morti fino ai confini dell’Universo.

Diede un ultimo, caldo bacio sulla fronte del bambino. D’inverno, anche chi sopporta la solitudine cerca un po’ di calore.

Ma il calore è un’esclusiva: dei ricchi con le loro puttane; dei poliziotti coi negri da malmenare; di chi, anche per un attimo solo nella vita, ha saputo amare.

Attimi invisibili, tanto brevi quanto fugaci, per cui vale l’eternità cercarli nella mente, nella storia. Per scacciare la solitudine, tagliare la corda.

Era un inverno come tutti gli altri: la neve, fra ragazzini in tempeste ormonali e cadaveri di clochard, assaporava il Natale. E a un neonato regalava in anticipo l’immagine di un uomo in bianco che spariva in essa. Un’immagine che non avrebbe più dimenticato.

[03: CARNE E METALLO]

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?!

Piccola Foglia Verde ha riaperto un po’ il mio cervello, così ho deciso di ampliare questa sorta di “viaggio”. Non ho intenzione di scrivere un libro, né tanto meno pretendere di seguire questa strada. Una tantum pubblicherò dei post che avranno un nesso (spero) logico con la storia di un ragazzo alla ricerca del padre. Ho già scritto la fine, quella vera; ma non ho intenzione di andare oltre con le spiegazioni. Quando avrete la sensazione che la parola “FINE” verrà messa su questo progetto, allora sarete accontentati. Buona lettura.

[01: PICCOLA FOGLIA VERDE]

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Posts – Aggiungi Nuovo

Negli ultimi tempi non ho scritto quasi un cazzo. Il mio modo di pormi di fronte la scrittura va via via scemando verso le solite quattro minchiate che (pare eh!) piacciono tanto ai blogger moderni. Come “Qualcosa” o come cazzo si chiama ora il suo blog: un amabile disturbato mentale che pubblica un post tra uno stupro e un avviso di garanzia, trattando sempre le stesse tematiche: lo stupro e i suoi avvisi di garanzia. Che poi a me non frega un cazzo della tua vita da viveur grottesco del Terzo Millennio, per quello ci sono i social network, basta scegliersi quello giusto; come l’ancia per il fagotto, i preservativi per il cazzo, il martello per i crani. Se sei amante dell’ermetismo, scegli Twitter: in fondo, la tua incapacità di costruire parafrasi non sarà notata in centoquaranta caratteri a meno che tu non sia un pastore sardo che si è ritrovato un iPhone 4 in mano solo perché lo ha rubato a una pecora durante il coito; se ti piace, un po’ come tutti, farti i cazzi degli altri (in maniera pura e fine a se stessa), scegli Facebook: il mondo è pieno di gente che ha voglia di sentirsi dire “Grande per la nota che hai scritto!” oppure “No!!! Sei stato in India e hai scattato questa foto al Taj Mahal con la tua splendida Canon Reflex da gigalioni di euro”, tu non sei da meno. Se sei un amante del vintage, scegli Tumblr; se invece ti senti un musicista solo perché hai comprato a venticinque euro il manuale di Garage Band, scegli Myspace. Tornando al discorso posts, io non sono l’eccezione. In questo momento sto scrivendo a caso considerazioni che farebbe anche Gasparri in merito alla questione Chiappe D’Oro, nel tentativo di trovare un sonno che, con l’acuire della mia depressione, sta continuando a infestarmi il cervello con pensieri che se dovesse leggerli Schopenauer mi direbbe: “Davide, vai a farti una trombata una volta tanto!”. Da piccino scrivevo molto di più. Non meglio, di più. E ci prendevo pure gusto a farlo: in parte perché il mio modo di ragionare al tempo era Se scrivo robe pesantissime le fighe mi cadranno ai piedi e in parte perché ciò che scrivevo mi aiutava a portare fuori sensazioni ed emozioni che non pensavo di riuscire a rendere su carta. Non andate a guardare il mio vecchio blog su Windows Live Spaces perché non è un blog, è il covo di un cadavere della vulva. Tuttora sono un cadavere della vulva, ma scrivo solo per rompere il cazzo, mi diverto troppo a rompervi il cazzo. Questo post vi sarà presentato in tutte le salse: su Twitter, su Facebook, su Myspace e su Tumblr no perché non sapevo della sua esistenza fino a qualche settimana fa. Ultima considerazione (anzi, ultime): il mondo sarà un posto migliore quando le persone scopriranno che intromettersi è cosa buona, ma fatto con continuità è solo per gusto personale, non per utilità; i comunisti stanno al mondo come Photoshop sta alle tette di Emma Watson: danno solo l’illusione di un mondo migliore [ed Emma Watson è già tanta roba]; qualcuno si è divertito a leggere Piccola Foglia Verde in radio: tranquilli, non ho dato il culo a nessuno (miei bei maschioni!), sono solo colleghi miei, di università e di radio (sic!) e questa è la prima volta che pubblicizzo il programma OrcoTrio, condotto da me, un dugongo e un capibara. La puntata in cui viene letta dovrebbe essere “Infanzia Mutilata”, ma non badate alle mie stronzate da malato mentale. Non badate nemmeno al post Piccola Foglia Verde, non ne vale la pena.

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Il Tragico Tentativo Di Imitare Fredrick Brown

[Ringrazio (e mi scuso con) Giuseppe Genna per la citazione in questo “pensierino”.]

La notte divenne giorno, dopo milioni di anni, su un pianeta privo di atmosfera. Gli abitanti granitici si avvicinarono al cratere, per poi esplodere in festa: Uko – “L’Iniziato” – colui che portò i meccanismi della vita era tornato su Nglah – “Il Sempre”. Dalla perfezione della sua pelle di pietra lucente, iniziò il discorso del creatore e del profeta, del padre e del maestro. Era il principio di una nuova era. E la morte di un’antica popolazione.

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01: Piccola Foglia Verde

Era seduto tra le macerie del tempio.
Il bonzo, cieco da tanti anni, si accorse della sua presenza
e senza agitazioni o turbamenti, recitò un’ultima preghiera;
poi, queste parole:

Ricordati del tuo presente, dei passati perduti, del futuro
di ogni creatura di questo pianeta. Grandi cose
potevano avvenire in questi secoli, ma la fioca luce
che faticosamente cresce in ognuno di noi ha trovato
rocce più solide di quelle che sostenevano questo tempio.

Non è una fine, neanche un principio.

E’ il corso del fiume che prende strade diverse,
deviato da calamità che non può prevedere.

Un perché lungo eoni trapassa ogni anima: non cercarlo.
Chi cerca, muore soffocato dalle acque che lo travolgono
durante il viaggio su mari lontani
e chi pensa di aver trovato, vive nella solitudine
per non essere riuscito, nelle sue esperienze precedenti,
a trasmettere questo suo dono fasullo alle persone che amava.

Ora va’, figliolo: un tempio distrutto non è posto
per chi deve crescere in un mondo di polvere e sogno.
Trova la tua strada, segui il tuo vento, ma non cercare:
porterà solo rovina alla tua preparazione. Hai un grande
potere, non disperderlo per cose inutili.

Ma il giovane, alzandosi dopo aver sentito tali parole,
con una forza che il monaco non intravedeva
in nessuno da tanti anni, rimosse le sue catene e pronunciò:

Sarò la piccola, verde foglia di un albero spoglio,
ma oggi non è tempo di viaggiare,
non è tempo di grandi rivelazioni,
ho viaggiato a lungo, e alla fine ho trovato:
è ora di tornare.

Prese in braccio il padre, lo adagiò sulla moto
e lo riportò a casa, dopo anni di lunghe ricerche
nelle freddi terre del Nord.

[02: LET IT SNOW, LET IT SNOW, LET IT SNOW]

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Mano

A F. – il ricordo che più di tutti
ha cambiato il mio essere.
Non mi stancherò mai di dedicarti
ogni cosa, bella o cattiva,
importante o futile,
possa uscire da queste mani
e da questa testa marcia.

Eri, sei e sarai,
in ognuno di noi, sempre. 

La mano trema, da sempre. L’unico segno di una debolezza e paura verso l’ignoto e l’oscuro. La paura di entrare in un qualcosa che è troppo grande da gestire, talmente grande da non poterne tracciare i confini, di sentirsi ancora fuori da esso. La debolezza di non riuscire a gestire questa immensità, di guidare il timone in mari lontani senza finire in maelstrom fatali.

La mia mano tremante è il sintomo di una insicurezza nutrita e accudita con pochi anni di sofferenze e misero autocontrollo. Quello vistoso e scarno, da filosofeggiante fruttivendolo. Difficile parlare di esperienza: l’esperienza è come la storia, è un marchio che rimane a fuoco sulla pelle, ma ne vedi le cicatrici dopo molti, di anni.

Le esperienze sono figlie dei ricordi. Sono troppe le righe, i versi, i pensieri in cui do importanza ai ricordi. Non voglio dimenticare, eppure continuo a inebriarmi di ricordi in ogni istante. Non cerco la felicità, neanche in un possibile universo parallelo il mio altro cercherebbe la felicità: la felicità è diventata per il mio essere una banalità per pochi adepti. Quelli che una mattina, la mattina delle loro banali esistenze, si svegliano e rendono le loro vite banali nella felicità propria e altrui.

Non saprei nemmeno descrivervi il mio concetto di ricordo, né tanto meno descriverne uno. Sono parole che senti una volta nella vita durante le lezioni di filosofia al liceo di cui ignori il significato esatto che ne dava l’autore, ma che ti davano in un contesto una sensazione di granitica universalità, come Arché o Apeiron. Sono acque già navigate da milioni e milioni di anni: mai uguali nella sostanza, sempre simili nella forma.

Marchi indelebili che regolano processi neurochimici in un circuito sinaptico che determina il nostro dormire e il nostro mangiare, l’amare e l’odiare, il pianto e il sorriso, la carezza e il pugno.

E io, che continuo a rifiutare il sonno e il cibo, l’odio e l’amore, la serenità (non si è mai felici quando si sorride, vi è solo il sentore che per qualche breve lasso di tempo, sia esso un secondo o una vita intera, qualcosa può cambiare leggermente per il meglio) e la tristezza, la violenza e la delicatezza, adoro affondare ogni singolo essere del mio corpo in queste sensazioni. Un tempo familiari, oggi tappe di un viaggio di cui ci si è dimenticati la mappa del sentiero in qualche casa.

Vivo di passati e remoti futuri cercando di nascondere ogni singola traccia di questa mia debolezza, di questa mia paura. Tranne la mano tremante, forse l’ultimo barlume di umanità e “banalità” rimastami.

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